mercoledì 6 febbraio 2013

Eterno 1

Eterno
( parte 1 di 2 )

Il rumore dei loro tacchi rimbalzava sulle pareti assestanti come lo avrebbe fatto una scura pallina di plastica in una stanza quadrata, adorna di spogli muri bianchi macchiati dal tempo e dagli aloni d'umidità che si spandevano sul soffitto come lo avrebbero fatto le radici di una quercia su di un fertile terreno chiaro. I bambini non erano inquieti quel giorno, pensavano come ovvio che sarebbe stata una semplice ed allegra gita a trovare i nonni in ospedale per via di un poco di semplice tosse che, tuttavia, per non degenerare aveva bisogno di essere curata nel più meticoloso dei modi; in un'apposita struttura medica.
- Dovrebbe essere questa. - Le parole uscirono dalla bocca della giovane donna con timore ed ansia ma ciò non di meno con fermezza e rigore, suo padre era stato ricoverato da poco insieme alla madre per un tumore terminale ed i medici, da ciò che avevano lasciato capire poco prima al telefono, non auspicavano buone notizie - Almeno così penso. - Concluse esitando sull'opaca maniglia d'ottone con la mano avvolta dall'abbraccio di un morbido guanto di pelle di renna. L'uomo che la seguiva si chinò sulle ginocchia per dire due parole ai bambini dopodiché si portò dietro la moglie, cingendola con un braccio in vita e portando la mano libera su quella della compagna incoraggiandola sopra la maniglia - Adi, cara, dietro quella porta non c'è niente di più rispetto a ciò che già sai. - Sorrise mostrando i denti bianchi parzialmente nascosti dai peli dei lunghi baffi neri che gli scendevano lateralmente fino al mento.
Lei, continuando ad opporre resistenza con il braccio per non ancora aprire la porta, annuì e ricambiò il sorriso in un breve istante di lucida consapevolezza che portò la sua mano a spingere la maniglia verso il basso. Il corridoio era vuoto, le pareti erano verdi e spoglie se non per qualche quadro inespressivo che faceva sfigurare ancora di più le tavole d'anatomia e gli avvertimenti sanitari racchiusi in sottili cornici di vetro lucido. Non un rumore poteva essere udito se non i fischi ed i corti suoni elettronici di macchinari accesi intenti a tenere in vita i pazienti nel reparto d'ospedale di terapia intensiva; pesanti bombole d'ossigeno, flebo ed altre strumentazioni che un bambino non dovrebbe vedere. Effettivamente sarebbe corretto dire che i bambini non sarebbero dovuti essere presenti ma la madre aveva insistito con il capo reparto per fargli vedere un'ultima volta il nonno, da quello che era infatti riuscita a dedurre dalla breve chiamata dell'ospedale suo padre, come la madre, erano entrati in uno strano stato di piena coscienza nonostante il cancro fosse arrivato a stadi impossibili da arrestare e, di conseguenza, mortali.
- Venite bambini e mi raccomando di non fare caso a quello che sentite, qui le persone vengono per riposare ed alcune tendono a lamentarsi. - Aveva redarguito Adia scompigliando i biondi capelli dei figli ed inarcando visibilmente le labbra rassicurandoli.
- Se vengono qui per riposare perché si lamentano, mamma? - Aveva domandato Ambra, la più piccolina, spalancando i grandi occhioni azzurri per la curiosità e facendo eco nel corridoio con la sua vocina alta.
La donna guardò verso il marito che aveva impercettibilmente aperto le braccia
- Silenzio, tesoro, qui la prima regola è il silenzio. - Le aveva risposto lei mettendole il dito indice sul naso per poi porlo davanti alle labbra rosee e guardare Augustin, il figlio più piccolo di circa sei anni, che mettendosi entrambe le manine guantate di lana davanti la bocca annuì.
La famiglia mosse i primi passi all'interno del corridoio dell'ospedale, la luce delle piccole e tonde lampade fissate al soffitto si rifletteva con esile luce sulle mattonelle in marmo del pavimento a scacchiera bianca e nera; luccicando tal volta quando ancora umide di detersivo.
I loro nasi si arricciarono per via dei forti odori che riuscivano a percepire: alcol, iodio, ammoniaca, disinfettante ed un debole aroma chimico di limone che proveniva dai bagni socchiusi, dove un mocio ed un secchio colmo d'acqua lasciavano intuire che fossero in atto le pulizie pomeridiane. Una sola finestra dava verso l'esterno ma la tendina di stoffa cadeva davanti pesante sul parapetto interno come le pene che affliggevano chi era costretto in quei letti anonimi, plasmati da troppa solitudine. Andando più avanti passarono le stanze numero tre e sei sulla sinistra per quindi arrivare alla nove subito davanti alla stanza degli infermieri, dove la porta accostata lasciava a malapena sfuggire la bassa voce del giovane capo reparto in carriera intento a discutere questioni d'ospedale con gli infermieri di turno. I quattro si fermarono davanti la porta della stanza numero nove, papà Jason sistemò le giacche a vento dei due pargoli ed il cappellino in lana rossa sulla testa del maschietto per poi rivolgersi alla moglie - Entriamo prima noi, poi, se sarà il caso, faremo entrare anche i bambini. - Propose.
- No. - Aveva sentenziato quella fissando il numeretto in plastica nera sulla porta che aveva davanti - Entro io, non voglio che i bambini restino qui fuori da soli, poi verrò a chiamarvi. -
Non lasciò il tempo al marito di controbattere che spinse la porta, priva di maniglia, verso l'interno ed in un corto cigolio entrò all'interno della modesta stanza. La luce era molto fioca e filtrava giallastra attraverso i rami di un'alta quercia che sporgeva davanti al finestrino in volumetrici raggi che si spandevano sulle tendine giallo sbiadito davanti al vetro; anche quelle verdi pareti erano spoglie se non per l'alone bianco lasciato dalla forma di un probabile crocifisso ed un armadietto azzurro posto vicino al bagno privato.
Stesi sul letto c'erano i suoi genitori, lui la fissava con i suoi occhi azzurri ed un debole sorriso sopra la folta barba ancora bianca che scendeva fino al petto. Per sua espressa volontà non era stata tagliata, essendo quello un ospedale privato nessuno avrebbe potuto troppo opporsi alla rigida decisione di un vecchio terminale. Lei sembrava dormire, attaccata al respiratore, con due flebo, stesa sul lettino ed avvolta da bianche coperte sembrava l'ombra di ciò che nella realtà rimarrebbe di una principessa delle fiabe: i lunghi capelli bianchi le incorniciavano il volto magro ma elegante, le palpebre chiuse truccate con un leggero ombretto color carne scura avevano deboli tremiti, le mani con le unghie ancora curate erano incrociate sul petto che si alzava e si abbassava regolarmente sospinto da un tubo trasparente che finiva con una mascherina davanti la sua bocca chiusa.
Il vecchio fece forza sugli avambracci e portò la schiena in maniera più eretta sullo schienale del lettino inclinato, si tolse il respiratore e la figlia ebbe un sussulto che lui si affrettò a fermare mostrando il palmo della mano sinistra - Non preoccuparti, tesoro... - Parlò con voce saggia ma roca, tarata dal tempo, le rughe ai bordi degli occhi si accentuarono quando sorrise ed i suoi baffi confusi nella barba sembrarono simpaticamente allargarsi - Non mi serve davvero, riesco a parlare ma quando dormo i dottori dicono che ho difficoltà respiratorie. - Cercò invano di rassicurarla.
Adia aveva posto entrambe le mani sulla giacca di pelle marrone strette davanti al cuore - Hai visto? - Continuò lui tentando di nascondere una fitta di dolore al torace - Ogni mattina, quando mi alzo, la trucco e le do un bacio sulle labbra. Dopo sessantasette anni ancora qui, hanno provato ad impedirmi di alzarmi ma ho il diavolo in corpo, io, non saranno quattro pavoni a fermarmi. - Si sporse sul lato destro del lettino e portò il braccio tremante su quello della moglie, stringendo delicatamente il suo pugno intorno all'esile avambraccio di lei - Sorride quando la trucco, quando riesce a parlare dice che vuole essere bella per me e per il ballo di domani. - Inspirò profondamente guardandola quasi con rimpianto - Il suo oggi è sempre il suo domani. - Carezzandola con la dolcezza di chi per la prima volta abbraccia la sua amante.
Adia si costrinse con anima e corpo a mantenere la dignità ed a non mostrarsi debole - Papà, io ho portato i bambini.- Si morse il labbro inferiore trattenendo una lacrima e le cadde l'occhio sull'elettroencefalogramma della madre, debole ma ancora pulsante - Pensi sia il caso di... -
- Assolutamente si, voglio salutare i miei nipoti. - Decretò quello con fermezza.
Lei annuì ed uscì dalla stanza senza pronunciare un ulteriore parola. Si chiuse la porta alle spalle e si sforzò di apparire tranquilla sotto lo sguardo interrogatorio del giovane marito - Venite bambini, la nonna dorme per cui non parlate ad alta voce, non svegliate il nonno e per qualsiasi cosa correte a chiamarmi. - Disse loro chinandosi sulle ginocchia coperte da neri pantaloni di seta e facendo ricadere i lunghi capelli sulle cosce.
- Foglia di primavera, io non so se... - Jason aveva provato ad interromperla ma lei si rialzò immediatamente e con fermezza - Nella vita ho imparato tante cose, Jas, e tra queste che non voglio negare ai miei genitori di vedere i loro nipoti come vorrei i nostri bambini non facessero con noi. -
Le mani alzate dell'uomo si scontrarono per un istante con il cellulare che usciva dalla tasca del suo cappotto facendolo rientrare nello scompartimento adeguato, cercando di sottrarsi al confusionario ragionamento della moglie ed abbassando la testa - Non sono nella posizione di mettere bocca. -
Lei abbassò lo sguardo e lo abbracciò - Scusami tesoro... - L'altro l'aveva cinta con entrambe le braccia e le aveva carezzato i capelli - Non c'è problema, foglia di primavera. - La sciolse dalla stretta e le prese il mento tra il pollice e l'indice - Vuoi entrare con loro o preferisci parlare con i medici? -
Quella scosse la testa - Vorrei che io e te andassimo a parlare con i medici. -
Lui annuì.
- Forza bambini. - Batté pacatamente le mani la mamma - Andiamo a trovare i nonni e ricordate: niente domande sul posto dove stanno altrimenti il nonno si arrabbia. -
La bionda figlioletta inclinò la testa sprofondando nella soffice sciarpa di lana bianca - Perché? -
- Perché te lo dico io, tesoro. - Severa.
- Va bene, mamma. - Parlò il pargolo più piccolo incrociando le dita davanti le labbra per poi baciarle in un sonoro schiocco - Pesciolini nella bocca. -
Lei abbracciò i bambini ed aprì la porta - Salutate il nonno. - Sorrise, ed i due piccolini agitarono silenziosamente le manine.
- Eccoli. - Esclamò stancamente il nonno allargando di poco le braccia e cercando di nascondere nelle maniche gli aghi delle flebo - I miei due cavalieri senza nome. - I due quasi esplosero di gioia sentendosi chiamare così e guardarono la mamma che gli fece cenno di andare. Adia rimase un breve istante a guardare fermando quell'immagine nella sua memoria come una macchina fotografica avrebbe catturato su nuova carta la stessa scena già vissuta in tempi andati. Aveva chiuso nuovamente la porta alle sue spalle ed era uscita dalla stanza a volto basso ma con le labbra inarcate verso l'alto, mentre la mente era persa nei ricordi.
- Come stanno? - Chiese quello.
Lei non riuscì a rispondere, si morse il labbro inferiore tinto di rosso - Andiamo a parlare con i medici. -

- Venite, venite qui sul lettino di nonno. - L'anziano uomo aveva chiamato i bambini battendo due colpetti sul materassino coperto da pallide lenzuola azzurrine, i due giovanotti si erano guardati e senza fiatare si erano mossi in coordinazione prendendo uno una sedia e l'altro usufruendo della stessa per salire ed aiutare l'altro a fare lo stesso. La piccola Ambra si guardò intelligentemente intorno e con spiccata curiosità inclinò la testa da una parte e poi dall'altra facendo battere un fioco raggio di luce sul suo guancino candido - La nonna dorme? - Domandò poi con disinvoltura ma protendendosi verso il nonno nel tentativo di parlare con il tono di voce più basso possibile.
Il vecchio Ulrich arricciò simpaticamente le labbra e spalancò le palpebre facendo saettare gli occhi prima destra e poi a sinistra, aggrottò la fronte e come a voler confidare un segreto annuì provocando deboli e coperte risatine nei due nipoti. Rise un poco insieme a loro, tossì avendo ben cura di coprirsi la bocca con la mano ossuta e sorrise - Come state bambini? - Aveva domandato rilassando i muscoli del volto.
Augustin tirò su le spallucce per poi riabbassarle - Bene, nonno, grazie. - Tirò distrattamente su con il naso ed una piccola gocciolina di condensa gli si formò sulla punta dello stesso, come la mamma gli aveva insegnato prese il fazzolettino di stoffa azzurra dalla tasca del cappottino e si pulì - Te come stai? -
Il nonno fece per rispondere ma la piccola s'intromise prima - Perché sei qui? - aveva chiesto domandando con sfacciata prontezza ed ovvia disobbedienza - Perché ci sono tutti questi computer qui? e tutte queste cose strane? - Ci pensò su un centesimo d'istante che passò come un granello di sabbia cade in una clessidra di nuovo vetro lucido e sfavillante - E perché non ci sono disegni qui? Perché ci sono questi tubi strani? -
Ulrich aveva già cominciato a scuotere la testa alla prima domanda ed all'ultima sembrava fosse uno di quei giocattoli di plastica chiamati bobble head - Perché? Perché? Perché? Perché? - Le fece il verso cercando di imitarla ma fallendo nel vano tentativo, seppur riuscendo nuovamente a far ridere i due - Perché invece non mi raccontate di voi? - Chiese alzando le sopracciglia ed aprendo ancora più scenicamente gli occhi.
I due piccolini si guardarono e fecero spallucce - A scuola andiamo bene e Augustine ha fatto un sacco di amicizie questo mese. - Spiegò perspicacemente la piccola sapientina - La maestra ieri mi ha detto che sono bravissima e alla verifica su storia ho preso distinto. - Si atteggiò stringendo le labbra ed annuendo nell'enunciare all'anziano nonno quanto lei fosse brava.
- Ci racconti una storia? - Aveva poi improvvisato il giovane Augustine facendo dondolare le gambe fuori dal letto mentre la sorellina aveva cura di tenerlo in vita affinché non cadesse.
La domanda era suonata così voluta e spontanea, detta più con gli occhi desiderosi di apprendere che con le ancora semplici parole che non riuscivano neanche marginalmente ad esprimere la voglia di sapere del bambino. Il suo era un mondo fatto di colori e nuove sensazioni, parole che si mischiavano a queste dandogli modo di esprimersi per permettere agli altri di comprendere parte di quel concetto che avvolgeva il piccolo in centinaia d'esperienze ogni giorno mai provate. Libri bianchi che altro non aspettavano di essere scritti con tinte quali sono l'igenua mente priva di preconcetti di un bambino sapeva tracciare. L'altra annuì.
- Una storia... - Rifletté ad alta voce il nonno. Si girò verso la moglie e gli cadde l'occhio sul suo encefalogramma, guardò fuori dalla finestra ed infine all'anello che lei portava al dito anulare: una fede celtica acquistata in Irlanda durante gli anni sessanta . Portò nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra - Forse è ora di una vera, storia. - Sospirando profondamente ed irrigidendo i lineamenti del volto. Si girò nuovamente verso i nipotini che lo guardavano ansiosamente e desiderosi di ascoltare - Avvicinatevi - Disse lui mostrandosi felice - Vi racconterò una storia che non avete mai sentito. -
Loro si avvicinarono strusciando sulle coperte, lui guardò verso l'orologio e decise di farsi forza
- Allora. - Cominciò - Tanti, ma veramente tanti, anni addietro in un mondo che noi non conosciamo e non abbiamo mai conosciuto... -
- Perché? - Chiese la giovane.
- Ssst, non interrompere. - La fermò subito il fratellino poggiandole una mano sulla gamba e mettendo il broncio. Lei alzò gli occhi al cielo e sospirando - Continua, nonno, scusami per averti interrotto. - Disse.
Lui annuì - Grazie cavalier Ambra - Scompigliandole i capelli ed evidenziando per lo sforzo i muscoli del braccio destro, ancora parzialmente delineati da tanti anni vissuti a praticare le molte arti apprese - Come vi stavo dicendo... - Riprese - In questo mondo c'era un giovane mago, si chiamava Lasar, ed aveva preso carico di una delle più gravose missioni avesse preteso l'imperatore di Antora, una delle più grandi terre che delineavano i confini del continente più grande che quel mondo avesse mai visto; in lingua antica si chiamava Aluan ovvero: ai confini del mare. -
- Che vogliono dire: deligneare e continente, nonno? - Domandò Austine, curioso. La piccola Ambra che leggeva già da molto tempo sospirò sonoramente e si girò verso il fratello - Delineare vuol dire che fa da confine, mentre il continente è un grande pezzo di terra che rinchiude altri pezzi di terra. - Ci pensò su - Un pezzo di terra molto grande. - Spiegò. Il fratellino ci rifletté un attimo su e facendo il paragone con il confine che divideva il suo spazio da quello della sorellina, nella cameretta, ed un grande pezzo di terra su cui ogni tanto si sedeva per guardare le formiche, fece cenno di aver capito.
- Un grave male affliggeva in quei tempi l'imperatore. - Ricominciò a raccontare il nonno respirando profondamente e buttando ogni tanto un occhio sulla moglie - Un oggetto molto importante, sacro, era stato sottratto dalle sue mani durante una delle ultime battaglie contro il male caotico e per via delle ferite riportate in guerra, come anche per via della sua posizione di imperatore, non poteva partire lui stesso per recuperarla. Ora, accadde che questo imperatore di nome Sergem convocò a corte i più grandi maghi di ogni disciplina, ogni ordine magico accorse alla chiamata e tra questi v'era anche Lasar, esponente massimo nonostante la sua giovane età dell'arte della manipolazione della materia. - Si accorse di aver detto qualche parola troppo complessa e strabuzzando un istante gli occhi si affrettò a correggersi - Questo vuol dire che questo mago poteva modificare le cose che possiamo vedere, trasformandole in altre cose. Caotico vuol dire confusionario. -
I due piccolini ebbero un sussulto - Anche le montagne? - Domandò il giovane Augustine estasiato dall'idea. Il veccho Ulrich si lasciò andare ad una sommessa risata - Non era così potente, nessuno lo era nell'impero se non pochi malvagi maghi, più somiglianti a mostri che persone, che si vendevano ai malvagi trovandosi trasformati in orribili creature che tuttavia potevano disporre di un potere più forte. - Spiegò, poi tirò su con il naso e strinse le palpebre - Disporre vuol dire che potevano avere. - Guardando il piccolo che annuì soddisfatto.
- Ora, non ci fu nessuna gara e nessun duello. L'imperatore cercava un volontario che sarebbe dovuto partire da solo per non essere trovato dal nemico; l'imperatore non avrebbe mai chiesto a nessuno di recarsi in quel malvagio posto che viene chiamato Hitlar Gror e che potrei descrivervi solo come una nera valle con una cittadina arroccata su una ripida montagna solitaria... -

- Hanno detto di aspettare ancora qualche istante. - Aveva riferito Jason uscendo dall'infermeria del reparto dopo aver scambiato due parole con il responsabile dello stesso - Stanno terminando di svolgere degli affari interni. - Le aveva spiegato quando lei aveva iniziato a far battere nervosamente i tacchi sul pavimento facendo ben attenzione a non esercitare tanta forza da creare una eco - Ma come mai questo attacco? - Chiese poi, come ricordandosi solo in quell'istante dei suoceri.
Lei scosse la testa - Non so. Pochi mesi fa stavano bene, papà ha pubblicato il suo ultimo libro sulla spiritualità e la scienza, poi sono stata chiamata e da Londra siamo dovuti correre qui. -
L'altro aveva abbassato la testa ed inspirato profondamente - Era ancora un sostenitore di quella strana teoria? -
- Si - La conferma della bionda uscì secca e definitiva - Il sei giugno doveva parlare ad una conferenza per spiegare come la teoria scientifica del multiverso potesse conciliarsi con la reincarnazione che, volgarmente, definiva pagana e come lo stesso fatto delle reminiscenze potesse fungere da strada per gli studi da seguire. -
L'uomo aveva lisciato entrambi i baffi con i palmi delle mani - Uno strano campo di studi, quello. -
Lei fece spallucce - Lui ci credeva e ci crede tuttora, anche mia madre lo ha sempre seguito e supportato sostenendo le sue teorie a discapito delle critiche. - Si girò nervosamente dando le spalle al marito, non per scortesia quanto per la necessita di doversi muovere per tentare in qualche modo di ingannare l'attesa con il fisico oltre che con la mente - Da qualche anno a questa parte so che aveva ricominciato a studiare le rune svedesi e che aveva preso un paio di poemi medievali per cercare quelli che chiamava: indizi persi nelle pagine. - Si girò verso la finestra e socchiuse un occhio per lo sbalzo di tensione sulla lampadina sopra di lei che per un istante la abbagliò - Aveva addirittura trovato qualcuno disposto ad investire dei soldi, circa due anni fa, e questa sarebbe stata l'ultima cosa che si sarebbe mai aspettato. Ha intensificato i suoi studi ma poi c'è stato il cancro, la sua volontà di non volersi far ricoverare, di non voler essere di peso alla famiglia e di voler terminare i suoi studi. -
- Capisco. - Disse l'altro semplicemente.
- è sempre stato un padre affettuoso, sempre, quel poco che ci ha fatto mancare ce lo ha ridato con il tempo. - Si intenerì presa dalla foga e dai ricordi come dalla paura e dal timore - Ma l'amore, quello che più è importante in una famiglia, non è mai mancato. - Una sottile e delicata stilla solcò la gota sinistra della donna scendendo fino al meno per poi ricadere lentamente in terra infrangendosi in tanti piccoli frammenti di fluido vetro. Dimore di eventi ed infiniti mondi creati con il passare degli anni, in quei piccoli momenti di cui spesso è difficile ricordare se non in sottili sfere di vetro, chiuse fuori da quel mondo che tanto chiamiamo: realtà.

Fine Parte Prima.

Questi giorni pubblicherò la parte due che andrà a concludere questo breve racconto.
A voi la parola, alla prossima storia. 

Sean Foster 

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